Il trasferimento di Calhanoglu dal Milan all’Inter è solo l’ultima tappa in una lunga relazione tra cugini caratterizzata anche da polemiche, ribellioni e tradimenti al veleno. In questo articolo si parlerà, in particolare, di un episodio che agitò non poco le acque del Naviglio, alimentando gli antagonismi tra i “bauscia” (i tifosi dell’Inter) e i “casciavit”: il clamoroso trasferimento del Pepin Meazza dall’Inter al Milan.
GLI ESORDI E IL PRIMO PROVINO
11 settembre 1927: si gioca a Milano l’incontro, valido per la Coppa Volta, tra Inter e Unione sportiva milanese. La partita non è in sé certamente memorabile: vincono i nerazzurri per 6-1, ma non è questa la principale notizia. Tra i commenti di quel match, che difficilmente si poteva presumere che avrebbe contribuito alla generazione di un mito calcistico, emerge per autorevolezza quello di Bruno Roghi, firma illustre del giornalismo sportivo dell’epoca. Quasi al margine della cronaca, un suo appunto veloce e inconsciamente ironico, sarà destinato a restare scolpito nella storia del calcio italiano; tra i giocatori in campo, infatti, un giovanotto si era distinto, una «riservetta di qualità», capace di segnare una doppietta all’esordio, da appena sedicenne. Fortuna del principiante, si potrebbe dire: in realtà, e lo si capirà presto, era stato appena posto il primo sigillo di un racconto glorioso.
Per Giuseppe Meazza non era stato semplice scalare i gradini del calcio che conta. Cresciuto nella Milano popolare, troppo presto orfano del padre morto in guerra, il Pepin si era fin da bambino prodigato tra il lavoro nella bottega della madre, e gli allenamenti per la strada con palloni composti da stracci. Il calcio si stava diffondendo con facilità a inizio ‘900; non era ancora lo sport più seguito in Italia (le prime pagine erano per lo più dedicate al ciclismo), ma recava già in sé il seme della sua popolarità. La bicicletta era discretamente costosa, probabilmente alla portata delle classi mediamente benestanti; non che un pallone avesse poi un prezzo a buon mercato (la madre di Pepin di certo non poteva permetterselo), ma vi era però la possibilità di fabbricarselo da sé, da buoni artigiani, con spirito di adattamento e improvvisazione. Anche per questo il football si rivelò ben presto una possibile strada verso l’emancipazione e il riscatto, e anche il piccolo Meazza non tardò molto a iniziare a sognare, dimostrandosi però, a differenza dei più, perfettamente all’altezza del suo fantasticare.
Il primo pallone lo comprò a Meazza un ammiratore segreto, estasiato dal talento acerbo, ma immenso, di quel giovane (allora dodicenne), che sapeva divertire e incantare tra pedate amatoriali, invenzioni d’artista e corse polverose in città. Da qui, una lenta e graduale ascesa, con la povera mamma che si convinse ben presto che sì, probabilmente il suo figliuolo avrebbe trovato più soddisfazione inseguendo un pallone, che continuando a vendere melanzane e zucchine nel negozio di famiglia. Dopo essersi distinto per alcune annate in squadre amatoriali del capoluogo lombardo, si presentò un dì per Meazza l’occasione della vita: un provino calcistico con il Milan. Destino volle, però, che quel primo vero scoglio il Pepin non riuscì a superarlo; venne scartato, infatti, poiché considerato troppo gracile e smilzo. Per una carenza di bistecca, insomma, il calcio italiano stava rischiando di smarrire uno dei suoi più grandi ed eterni fuoriclasse.
GLI ESORDI E IL PRIMO PROVINO
Una nuova opportunità si presentò ben presto con l’altra illustre squadra milanese, e questa volta i nerazzurri furono abbastanza accorti da non farsi accecare da un secondo clamoroso abbaglio; al promettente talento venne garantito un posto tra le giovani leve interiste, e la storia iniziò così a prendere una nuova piega.
Si racconta, poi, che le giovanili nerazzurre fossero assai frequentemente seguite da un futuro Maestro del calcio in Italia; l’occhio di Fulvio Bernardini, il “Dottore”, cadde senza alcuna esitazione su quel ragazzo magrolino, ma di classe eccelsa e inventiva rara. Non tardò molto, il Nostro, a segnalare quel nome ancora sconosciuto al tecnico dell’Inter, un ungherese brillante, sostanzialmente geniale, la cui parabola di vita si concluderà, purtroppo, nell’inferno di Auschwitz. Árpàd Weisz (così si chiamava) ebbe la giusta intuizione di fidarsi del consiglio del Fuffo, permettendo così al Meazza, in quella giornata di fine estate, di esordire in una partita ufficiale con la prima squadra. Quel dì si narra che Leopoldo Conti, ala nerazzurra di qualità sopraffina, seppe ironizzare con Weisz, mostrando sarcasmo per la scelta dell’allenatore di mandare in campo “perfino i balilla” (riferendosi alla così tenera età del Pepin), assegnando così involontariamente al nostro protagonista un secondo nome di battesimo.
Ebbe così inizio una parabola gloriosa e duratura. Il primo scudetto con l’Inter Meazza lo vinse nel 1929-1930 (prima stagione di serie A a girone unico), segnando ben 31 reti; una sua storica tripletta contro il Genoa (anzi Genova: così aveva deciso il regime), in conclusione di campionato (in una giornata peraltro drammatica, a causa del crollo delle pericolanti tribune dell’Arena Goldoni, con quattordici feriti, ma fortunatamente nessun morto), permise ai nerazzurri di pareggiare per 3-3 (dopo essere stati in svantaggio per 3-1), facendo così il passo ormai decisivo per il trionfo finale.
UN DIVO MODERNO
Meazza fu un attaccante straordinario, probabilmente uno dei migliori della storia del calcio, e in particolare di quell’era paleolitica senza televisione. Fiuto del goal, creatività estrema, dribbling fulminante erano il repertorio di un artista tanto efficace, quanto imprevedibile. È rimasto celebre il suo modo di segnare “a invito”: il Pepin era solito arrivare al limite dell’area avversaria, ingolosendo il portiere che, tentando la mossa della disperazione, era così spinto a uscire. Quasi sempre, però, lo sforzo si rivelava vano, e l’attaccante nerazzurro senza fatica alcuna si trovava in porta, lasciando all’avversario l’oneroso compito di raccogliere il pallone dal sacco.
Il Balilla non fu però soltanto immenso sul rettangolo verde; il suo fascino alla Rodolfo Valentino, il ciuffo ben sistemato, il sorriso da pubblicità lo trasformarono immediatamente nel sogno di molte donne italiane e nel primo vero divo del calcio moderno. Anche Benito Mussolini comprese ben presto che quel ragazzo talentuoso e dotato sarebbe potuto essere un testimonial esemplare per la retorica del regime. Il Pepin divenne così il volto principale del vittorioso mondiale casalingo del ‘34: il suo atletismo, lo spirito vincente e la genialità da artista ben incarnavano lo spirito del nuovo uomo italico.
Un episodio al mondiale del 1938 ben rappresenta l’indole ribelle e anticonformista di Meazza; dopo una vittoria a fatica all’esordio contro la Norvegia, il Balilla si confidò con Vittorio Pozzo, suggerendo un possibile e non troppo dispendioso rimedio agli acciacchi della squadra. Secondo il Pepin, in sostanza, i calciatori avrebbero avuto necessità di liberare gli istinti in un bordello di Parigi, per ritrovare così nuove energie; il commissario tecnico acconsentì, e la squadra recuperò anche così il vigore dei giorni migliori.
IL TRADIMENTO
Fenomeno in campo (e non meno fuori), il divo dell’Ambosiana Inter (nome imposto dal regime) e della Nazionale sapeva far parlare, sempre e comunque, di sé; si racconta che una domenica si presentò al campo a riscaldamento iniziato, dopo una lunga notte di brindisi e lenzuola. Anche quella volta, però, riuscì a farsi perdonare dai dirigenti sempre più insofferenti, segnando una tripletta: solo i più grandi, si sa, possono permettersi di essere anche poco seri.
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